Milano, 16 settembre 2016 - 20:45

Pablo Escobar, mio padre

«A 8 anni, mi prese da parte e mi disse: un uomo vero non si droga»
Il figlio Sebastian racconta il re del narcotraffico. «Da Riina ha copiato le stragi»

Pablo Escobar con il figlio Juan Pablo davanti alla Casa Bianca (Foto Sebastián Marroquín) Pablo Escobar con il figlio Juan Pablo davanti alla Casa Bianca (Foto Sebastián Marroquín)
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«Avrò avuto otto anni quando mi prese da parte e mi fece un discorso sulle droghe. Ammise di averle provate quasi tutte, ad eccezione dell’eroina. Ma poi mi avvertì “il vero uomo non ha bisogno di quelle schifezze”».

Padre e figlio, seduti uno di fronte all’altro. A raccontare via Skype al Corriere di questo colloquio avvenuto nel 1985 è Sebastián Marroquín, primogenito di Pablo Emilio Escobar Gaviria, il più feroce trafficante di droga mai esistito nonché Re della Cocaina e del Cartello di Medellín. Marroquín, al secolo Juan Pablo Escobar, oggi vive a Buenos Aires, dove è architetto e dove si è rifugiato dopo la morte di suo padre e dopo un giuramento solenne al cartello avversario di Cali in cui prometteva di stare alla larga dalla Colombia e dal traffico di droga. Un destino ben diverso, dunque, dalla «pista secreta» cui, in genere, vengono instradati i figli dei narcos.

Suo padre è considerato responsabile di 4 mila omicidi. Lei ha chiesto scusa alle vittime. Allo stesso tempo nel suo libro lo descrive come un padre amorevole. Chi era davvero Escobar?

«Era un uomo pieno di contraddizioni. Amava alla follia la sua famiglia. Aveva costruito per noi una hacienda, Nápoles, e l’aveva riempita di animali esotici per farci divertire. Ma allo stesso tempo ordinava omicidi e uccideva, senza pensare alle conseguenze. Trafficava droga, eppure mi sconsigliava di usarla, senza vietarmela perché conosceva gli effetti del proibizionismo sul mercato. Amava mia madre ma la tradiva...».

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L?album di famiglia di Pablo Escobar

Il novembre scorso un contadino ha scoperto un altro nascondiglio con 600 milioni di dollari del cartello di Medellín. Che effetto le fa non possedere nulla di quella fortuna?

«Devo solo ringraziare i nemici di mio padre che dopo la sua morte ci hanno tolto tutto. Se così non fosse stato, io sarei diventato Escobar 2.0 e oggi sarei morto».

Ha visto la seconda stagione di «Narcos» di Netflix. Su Facebook ha scritto che ci sono molte incongruenze nel racconto. In particolare non accetta la versione ufficiale che vuole suo padre ucciso dagli agenti del «Blocco di Ricerca» mentre era in fuga.

«Per me cambia poco come sia morto. Ma i familiari delle vittime del narcotraffico hanno il diritto di conoscere la verità. Mio padre mi ha sempre detto di aver 15 proiettili nella sua Sig Sauer: 14 per i suoi nemici e uno per sé stesso. Quindi una volta capito di essere spacciato ha deciso di spararsi all’orecchio destro. Nel rapporto, in cui si parla di un colpo “nella parte superiore del padiglione auricolare destro, con foro di uscita a livello dell’orecchio inferiore sinistro” non viene specificato il calibro del proiettile. Io sono certo che quel colpo è stato sparato da mio padre».

Serie tv, film, libri, narcovelas. Stiamo mitizzando
il narcotraffico?

«Ognuno è libero di raccontare ciò che vuole. Ma quando si parla di droga, il lato educativo è fondamentale. Da tutti questi prodotti non emerge quanto i narcos abbiano impoverito le popolazioni sudamericane. Poi ci si concentra sulle singole figure dei capi dei cartelli. Eppure la storia dimostra come le violenze non finiscano con la loro morte».

Il libro di Juan Pablo Escobar in uscita in Italia il 22 settembre (Newton Compton)
Il libro di Juan Pablo Escobar in uscita in Italia il 22 settembre (Newton Compton)

A fine agosto è stato stretto un accordo di pace storico in Colombia tra il governo e le Farc. Che rapporti aveva Escobar con la guerriglia?

«Era convinto che i narcos e i guerriglieri potessero convivere senza intralciarsi nei rispettivi territori. In più occasioni mi disse che ammirava il gruppo M-19 (altra sigla attiva in Colombia dal 1970 al 1990, ndr) perché aveva compiuto gesta notevoli, come il furto della spada di Simón Bolívar, soprattutto lo rispettava perché ai suoi esordi assaliva i camion del latte per distribuirlo nei quartieri poveri di Bogotá. Ma i rapporti con non sono sempre stati pacifici».

Nel suo libro racconta di essere stato a Milano nel 1990 per assistere a una partita di calcio dei Mondiali. Anche suo padre ha visitato l’Italia?

«Non che a me risulti. Ma so che guardava con attenzione ai movimenti di Totò Riina, soprattutto per l’uso delle bombe, una strategia adottata purtroppo anche da mio padre in Colombia».

Lei ha un figlio. Cosa sa del nonno?

«Si chiama Juan Emilio, ha tre anni. E’ ancora piccolo per capire. Ma non gli nascondo niente. Allo stesso tempo sono sicuro che se mio padre fosse ancora vivo lo avrebbe amato moltissimo».

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